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Una stanca Europa

Una stanca Europa

Una stanca Europa

Nell’Europa occidentale, quella composta dagli stati europei che hanno iniziato una strada comune ben prima della caduta del muro di Berlino, si inizia ad essere stanchi di Ucraina.

Una stanchezza rafforzata da moltissimi fattori: preoccupazioni relative alla crisi economica che si prospetta nei prossimi mesi; timori inflattivi e recessivi derivanti dall’aumento di metano ed energia elettrica; percezione di una guerra impantanata nella quotidianità delle trincee e dei proiettili di artiglieria che cadono a caso su questa o quella città o villaggio.

Ci pare di assistere ad un’opera teatrale in cui il protagonista principale è il caos: vogliamo capire, vogliamo comprendere, ma come si può interpretare ciò che nel dizionario è definito come “disordine estremo”?

La prospettiva italiana

Noi italiani al caos della guerra avevamo dato una soluzione definitiva, scritta nero su bianco nell’articolo n. 1 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

La guerra, quindi, la rifiutiamo e comunque i conflitti armati hanno da essere risolti dalle “organizzazioni internazionali” a ciò preposte, ed a cui vedremo di dare una mano.

Il rifiuto, o meglio il ripudio, ci mette poco a divenire rimozione: siamo diventati civili, quella barbarie semplicemente non ci riguarda, non esiste, è un fenomeno che si verifica tra chi è “rimasto indietro” per cultura e/o economia.

Tra ideologia e realtà

Il risveglio, lo scorso 24 febbraio, è stato duro: ciò che è stato rimosso ha segnalato la sua persistenza, dietro l’angolo di casa, ed ora vuole incidere sulla nostre quotidiane comodità, fatte di case riscaldate, strade illuminate, banconi dei supermercati colmi di merci acquistabili da tutti, o quasi tutti.

La guerra esiste, anche se la ripudiamo.

La guerra può arrivare con le sue conseguenze nelle nostre mura domestiche, anche se ci affidiamo alle organizzazioni internazionali.

Gli amici della nonviolenza di ciò sono consapevoli, come sono consapevoli delle strade già percorse nel passato. La storia è zeppa di slogan quali “questa guerra la combattiamo per porre fine a tutte le guerre”.

Non ci è sufficiente interpretare ciò che accade nel mondo, adattandosi ad esso: il mondo lo vogliamo trasformare.

Azione nonviolenta

Come? Progettando, organizzando e costruendo sistemi e strutture non armate, che rendano non remunerativa un’aggressione o una minaccia militare: strutturando quello che è stata definita come “azione nonviolenta”.

Ma iniziamo a specificare, ne abbiamo bisogno, che cosa “non è” l’azione nonviolenta:

1) L’azione nonviolenta non ha nulla a che fare con la passività, la sottomissione e la codardia; proprio come nell’azione violenta, queste devono essere prima respinte e superate.

2) L’azione nonviolenta non deve essere identificata con la persuasione verbale o puramente psicologica, sebbene possa utilizzare l’azione per indurre pressioni psicologiche per il cambiamento di atteggiamento. L’azione nonviolenta, invece delle parole, è una sanzione e una tecnica di lotta che implica l’uso del potere sociale, economico e politico e l’incontro di forze in conflitto.

3) L’azione nonviolenta non dipende dal presupposto che le persone siano intrinsecamente “buone”. Si riconoscono le potenzialità delle persone sia per il “bene” che per il “male”, compresi gli estremi della crudeltà e della disumanità.

4) Le persone che usano l’azione nonviolenta non devono essere pacifisti o santi. L’azione nonviolenta è stata praticata prevalentemente e con successo da persone “normali”.

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Azione nonviolenta

5) Il successo con un’azione nonviolenta non richiede (sebbene possa essere aiutato da) standard e principi condivisi, un alto grado di comunità di interessi o un alto grado di vicinanza psicologica tra i gruppi in lotta. Questo perché quando gli sforzi per produrre un cambiamento volontario falliscono, possono essere impiegate misure coercitive nonviolente.

6) L’azione nonviolenta non è solo un fenomeno orientale; anzi, è probabilmente più occidentale, se si tiene conto dell’uso diffuso di scioperi e boicottaggi nel movimento operaio e delle lotte di non cooperazione delle nazionalità subordinate.

7) Nell’azione nonviolenta non si presume che l’avversario si asterrà dall’usare la violenza contro gli attivisti nonviolenti; la tecnica è progettata per operare contro la violenza quando necessario.

8) Non c’è nulla nell’azione nonviolenta che impedisca che sia usata sia per cause “buone” che “cattive”, sebbene le conseguenze sociali del suo uso per una causa “cattiva” possano differire considerevolmente dalle conseguenze della violenza usata per la stessa causa.

9) L’azione nonviolenta non si limita ai conflitti interni all’interno di un sistema democratico; è stato ampiamente utilizzato contro regimi dittatoriali, occupazioni straniere e persino contro sistemi totalitari.

10) L’azione nonviolenta non richiede sempre più tempo per produrre la vittoria di quanto richiederebbe la lotta violenta. In una varietà di casi la lotta nonviolenta ha conquistato obiettivi in ​​brevissimo tempo, in appena pochi giorni. Il tempo impiegato per ottenere la vittoria dipende da diversi fattori, principalmente dalla forza degli attivisti nonviolenti. Nella prossima newsletter andremo sul positivo, ovvero “che cosa è” l’azione nonviolenta.


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AVOLON
Associazione Volontari & Obiettori Nonviolenti

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