Ripensare al pacifismo: IL MOVIMENTO PER LA PACE IN JUGOSLAVIA
Di Andrea Caira per Meridiano 13
Un pacifismo polisemico
Era il 1995 quando Alex Langer inquadrava lucidamente la contraddittoria macchina diplomatica messa in moto dell’Occidente per provare a intervenire sulle sorti del conflitto jugoslavo. “Tutte le trattative di pace”, constatava l’attivista di Vipiteno, “hanno, in realtà, rafforzato i signori della guerra legittimando la loro leadership, consolidando il loro potere, emarginando i loro avversari democratici. Niente o quasi nulla è stato fatto, invece, per sostenere le forze del dialogo, della reintegrazione, della ricerca di soluzioni comuni”.
La denuncia di Langer non era semplicemente la sconsolata sintesi di chi aveva creduto nella potenza preventiva del dialogo diplomatico ed ora si trovava ad osservare l’infelice epilogo della missione UNPROFOR in Bosnia ed Erzegovina. Al contrario, emergeva come un’esortazione alla società civile italiana nell’individuare nel movimento pacifista il soggetto politico attraverso il quale interpretare la fine del paradigma della Guerra Fredda. Per lunghi tratti della crisi bosniaca, e della successiva guerra del Kosovo, la riflessione attorno al ruolo, alle sfide, ma anche allo stesso processo costitutivo del movimento umanitario, aveva interessato larghi strati della società italiana. Il verbo della nonviolenza sembrava infatti connettere soggetti e realtà associative provenienti da esperienze diverse che, soprattutto nel decennio precedente, si erano incrociate e identificate attraverso la condivisione di nuove forme di disobbedienza civile e sviluppando una propria ritualità.
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